Depressione: da dove viene? Perché è così diffusa? Come si combatte?

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Il termine “depressione” è da anni sulla bocca di tutti. Esso indica, nel linguaggio specialistico, un disturbo mentale, ma viene spesso utilizzato dai non addetti ai lavori anche per indicare un più ampio insieme di stati d’animo e sintomi fisici. Ma perché si parla proprio di “depressione”? Quando è corretto utilizzare questo termine, e perché è spesso preferito ad altri? In cosa consiste davvero il quadro diagnostico del Disturbo Depressivo Maggiore? Cerchiamo di rispondere insieme a questi e altri interrogativi.

Un nemico diffuso

La depressione (definita dal DSM 5 come “Disturbo Depressivo Maggiore”) è tra i più diffusi disturbi mentali nella popolazione generale: nel 2018 l’ISTAT stimava che ne soffrisse più di una persona su venti di età superiore ai 15 anni (1); la pandemia sembra inoltre avere molto aggravato la situazione, e il numero di persone che hanno presentato sintomi depressivi nell’ultimo periodo è persino quintuplicato rispetto agli anni precedenti (2). 

Il Disturbo Depressivo Maggiore è caratterizzato da una varietà di sintomi, di cui almeno uno deve essere la presenza di umore depresso o la perdita di interesse e piacere nelle attività quotidiane. Gli altri sintomi possono riguardare le alterazioni del peso, del sonno, agitazione o rallentamento, sentimento di colpa, pensieri di morte e ridotta capacità di concentrazione. Si tratta quindi di una condizione che comprende non solo un profondo e continuativo sentimento di tristezza, ma anche una serie di altre alterazioni del funzionamento dell’individuo.

La diagnosi di questo disturbo, come quella di qualsiasi altro, è formulabile solo da uno psicologo o un medico adeguatamente formati, ed è importante specificarlo perché ormai molto, troppo spesso si parla di depressione anche a fronte di episodi dove si avverte della semplice tristezza. Cosa rende diverse queste due condizioni?

Quali sono le differenze tra depressione e tristezza?

Queste due condizioni vengono spesso accomunate e confuse perché si manifestano, in generale, con un abbassamento del tono dell’umore. Diverse sono però le differenze che le separano, che giustificano il fatto che la tristezza venga considerata un’emozione fisiologica, mentre la depressione un disturbo mentale, quindi una patologia.

Una delle più importanti differenze, come abbiamo visto, riguarda la durata: mentre la tristezza è un’emozione che può durare alcuni minuti, alcune ore, alcuni giorni, per formulare una diagnosi di episodio depressivo maggiore sono necessarie almeno due settimane di presenza di svariati sintomi, di cui solo uno è l’abbassamento del tono dell’umore.

Anche l’intensità delle reazioni è una discriminante: i sintomi depressivi sono a volte talmente acuti da indurre, ad esempio, specifiche modificazioni fisiologiche (come nei ritmi del sonno) e una mancanza di energie tale da impedire di dare inizio alla propria giornata una volta svegli. Nonostante la tristezza possa presentarsi con differenti livelli di intensità, è invece più difficile possa causare reazioni simili.

Ad uno sguardo più attento, anche la tipologia stessa delle reazioni alle due condizioni le differenzia: le persone depresse possono manifestare perdita di interesse nei confronti del mondo, alterazioni nel peso, pensieri suicidari e forti sentimenti di colpa, sintomi assolutamente non comuni alle condizioni in cui ci si sente semplicemente tristi.

Differenziare tristezza e depressione è importante per diversi motivi. La società odierna è sempre più orientata a trattare la tristezza, un’emozione fondamentale, come qualcosa da evitare a tutti i costi e di cui vergognarsi. Quando le persone sono tristi possono quindi con maggiore facilità iniziare a preoccuparsi molto del proprio stato d’animo e considerarlo sbagliato, inconsueto, patologico. Da qui ad etichettare una fisiologica condizione di tristezza come “depressione” il passo è molto breve.

Ancora, potremmo essere tentati ad usare il termine depressione al fine di richiamare l’attenzione degli altri sulla nostra tristezza, convincendoci e convincendo gli altri che siamo meritevoli di attenzione, empatia e comprensione solo se viviamo una condizione patologica.

Per queste e per altre ragioni, potrebbe essere utile moderare l’utilizzo del termine depressione, e tentare di etichettare una propria o altrui condizione come tale solo quando essa è stata davvero indicata in questo modo da uno specialista della salute mentale adeguatamente formato.

Le cause della depressione

Data la diffusione di sintomi e condizioni depressive, la letteratura specialistica è colma di riferimenti, ipotesi eziologiche e spiegazioni più o meno recenti che tentano di individuare le possibili cause di questa condizione.

Prima di elencarne alcune, è utile ricordare che i sintomi depressivi possono presentarsi per tante ragioni diverse contemporaneamente: le spiegazioni biologiche, psicologiche e sociali non si escludono a vicenda, ma in diverse occasioni è una combinazione di cause afferenti a queste diverse aree a causare una condizione depressiva.

Per ciò che concerne le cause biologiche, la ricerca ha messo in luce una ereditarietà “moderata” del disturbo(3): per questo, è possibile ipotizzare la presenza di un insieme di geni che determina poi una certa predisposizione allo sviluppo dei sintomi depressivi, i quali però si potrebbero presentare solo a fronte di una sufficiente stimolazione ambientale. Ulteriori correlati biologici sono stati individuati a livello della produzione di alcune sostanze, nello specifico i neurotrasmettitori della classe delle monoamine (serotonina, dopamina e noradrenalina) e il cortisolo (3). In questi casi, l’influenza può essere bidirezionale: degli squilibri di base di questo tipo possono rendere più probabili alcuni sintomi depressivi, ma anche una condizione depressiva può promuovere l’aggravarsi di questi squilibri.

Per ciò che concerne le spiegazioni di tipo psicologico, sono state avanzate innumerevoli ipotesi: ad esempio Freud, per spiegare le origini della depressione, la paragonò al lutto: le due condizioni si somigliano per quanto riguarda il forte abbassamento del tono dell’umore; si differenziano invece perché nel lutto si reagisce ad una perdita reale e lo stesso processo implica, al suo termine, un recupero della serenità, mentre nella depressione ciò non avviene. L’autore spiega che nel lutto è il mondo a svuotarsi della persona amata e persa, mentre nella depressione è l’Io dell’individuo a svuotarsi. Ciò accadrebbe perché nel lutto il soggetto sarebbe capace di ritirare a poco a poco la libido dalla persona amato e perso per reinvestirla su altri oggetti, mentre nella depressione si verificherebbe una perdita inconscia, un’identificazione con l’oggetto perso e una conseguente difficoltà o impossibilità del soggetto a elaborare la perdita.

In ambito cognitivista, un’importante teorizzazione è quella di Beck, che individua come nucleo fondante della depressione uno stile cognitivo basato su convinzioni negative nei confronti:

  • di sè stessi: la persona depressa tende a convincersi di essere immeritevole di amore, cattiva, biasimevole, e inizierebbe a nutrire forti sentimenti di colpa;
  • del mondo: la persona depressa crede che il mondo sia un posto minaccioso dove si possono vivere solo esperienze negative;
  • del futuro: chi soffre di sintomi depressivi potrebbe iniziare a perdere le speranze verso il futuro, che potrebbe essere visto come un luogo in cui si possono verificare solo eventi negativi.

Nutrendo queste convinzioni, la persona depressa continua a leggere la realtà mediante queste lenti, per cui ogni evento che succederà non farà che confermare queste ipotesi, che a loro volta contribuiranno al calo dell’umore, il quale renderà più probabile l’interpretazione negativa di e eventi futuri, in una vera e propria spirale depressiva.

Come è lecito aspettarsi, non sono solo fattori biologici e psicologici a causare i sintomi depressivi o contribuire alla loro gravità: un grande ruolo può essere rivestito anche da eventi esterni che possono minare l’umore e il benessere degli individui. A tal proposito, eventi che segnalano la perdita di qualcosa, come la morte di una persona cara, la rottura di una relazione, la perdita del lavoro, la disoccupazione, l’invecchiamento, il cambio di status (ad esempio da persona senza figli a genitore), una grave malattia, sono tutte circostanze che possono contribuire a far sì che una persona sviluppi sintomi depressivi.

Depressione e personalità: il disturbo depressivo di personalità

Il modo in cui i sintomi depressivi vengono concettualizzati varia a seconda del sistema nosografico utilizzato. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5) individua ad esempio vari quadri diagnostici dove sono presenti dei sintomi depressivi, come il Disturbo Depressivo Maggiore o il Disturbo Depressivo Persistente. Per il modo in cui è strutturato, però, il DSM 5 non fornisce particolari indicazioni su come i vari sintomi acquisiscano un significato più ampio nel contesto della personalità di un individuo. Informazioni di questo tipo sono basilari per la diagnosi e il trattamento dei sintomi, perché aiutano a comprenderne meglio l’origine. Se la depressione consiste in un brusco abbassamento del tono dell’umore, corrispondente spesso alla perdita reale o percepita di qualcosa di importante, è basilare comprendere cosa è importante per un individuo, prima di poter giungere ad individuare cosa è stato perso. Ragionando su ciò, i sintomi depressivi potrebbero acquisire significati diversi per diverse persone: una persona con un tipo di personalità narcisistica potrebbe ad esempio sviluppare la depressione per un brusco e irreparabile calo dell’autostima, mentre un individuo con una personalità di tipo dipendente potrebbe sviluppare sintomi depressivi a seguito della perdita dell’oggetto di dipendenza, impossibile da sostituire. 

Secondo il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM 2), un sistema alternativo al DSM 5, esisterebbe un particolare stile di personalità definibile come “depressivo” (che forse è quello più comunemente osservabile in ambito clinico) caratterizzato da una maggiore tendenza a vivere emozioni negative, convinzioni negative riguardo il valore di sè, oltre a sentimenti di rifiuto e perdita. Queste persone tendono a sentirsi cattive, in colpa; molti dei loro sforzi sono orientati ad evitare la perdita dell’altro. Nelle sue ricerche, Sidney Blatt (4) ha identificato due tipologie di personalità depressiva:

  • Introiettiva: le difficoltà di base di queste persone riguardano il rapporto con il sé. Chi ha una personalità di questo tipo tende a sentirsi colpevole, indegno, immeritevole di amore, e tende spesso a mettersi in discussione e accusare sé stesso delle circostanze negative che gli accadono, considerandosi la causa principale della propria sofferenza;
  • Anaclitica: il nucleo della sofferenza di queste persone risiede nelle relazioni con gli altri. Si tratta di persone sensibili alla perdita, che si sentono spesso sole, incomplete, e che tendono ad evitare l’allontanamento degli altri, incolpando sé stesse quando questa circostanza si verifica.

La distinzione appena riportata non vieta, in realtà, che nella stessa persona possano coesistere temi anaclitici e introiettivi (5).

La depressione si può curare? E come?

Come è facile aspettarsi, i sintomi depressivi e le cause che li generano sono trattabili da diversi punti di vista e secondo approcci anche molto diversi tra loro, che non si escludono a vicenda, ma sono spesso anche complementari.

Dal punto di vista biologico, nel corso del tempo sono stati studiati diversi farmaci, ciascuno con le proprie peculiarità, per aumentare il tono dell’umore. La classe più recente di farmaci antidepressivi è quella degli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), che agiscono facendo sì che il rilascio di serotonina (neurotrasmettitore legato all’umore, che si è visto essere disponibile in quantità inferiori nelle persone depresse) nelle sinapsi duri più a lungo, con effetti benefici sul tono dell’umore. Approcciandosi a questi farmaci è utile ricordare che i loro effetti iniziano a manifestarsi solo alcune settimane dopo l’inizio della terapia, per cui viene indicato di non interromperne l’assunzione senza avere consultato il medico che li ha prescritti, solitamente uno psichiatra o un neurologo. Nei casi più gravi è possibile interventire tramite un’altra forma di trattamento, la Terapia Elettroconvulsiva (TEC), che si svolge in alcune sedute durante le quali al paziente vengono somministrate delle scariche di energia elettrica, che produrrebbero un insieme di reazioni all’interno del cervello capaci di modificare sensibilmente gli equilibri di quei sistemi che regolano il tono dell’umore, difatti migliorandolo in tempi relativamente brevi.

Dal punto di vista psicologico, le varie correnti teoriche si sono impegnate per sviluppare tecniche e percorsi utili ad affrontare problematiche di carattere depressivo, dalla psicoanalisi classica alle sue diverse evoluzioni, passando per la terapia sistemica e quella cognitivo-comportamentale. Ciascuna di queste forme di psicoterapia si svolge in un modo specifico e coerente col background teorico sul quale poggia.

Spesso i casi più gravi di depressione vengono affrontati dai servizi di salute mentale mediante interventi d’equipe, basati cioè sul lavoro di più specialisti diversi, in maniera da garantire una presa in carico totale dell’individuo che affronta un grave momento di sofferenza, potenzialmente anche invalidante.

In conclusione…

La depressione e i sintomi che la caratterizzano affliggono un vasto numero di persone. Le cause del disturbo sono in parte note, sebbene non tutte possano essere rilevanti nei quadri psicopatologici degli individui che mostrano questi sintomi: due persone potrebbero ricevere la stessa diagnosi, ad esempio, di Disturbo Depressivo Maggiore, pur mostrando quei sintomi per motivi totalmente diversi tra loro. Come abbiamo visto, la diagnosi da parte di uno specialista è un atto fondamentale non solo per riconoscere il disturbo e orientare il trattamento, ma anche per evitare che condizioni di normale tristezza vengano confuse con questo quadro psicopatologico. 

Questo disturbo e tutte le condizioni vicine ad esso possono portare ad elevati livelli di sofferenza e, in alcuni casi, possono anche spingere al suicidio. Per questo, è importante che le persone che soffrono di sintomi depressivi sappiano che esistono diverse tipologie di terapia per la loro forma di sofferenza, molte delle quali godono di ottimo supporto da parte della ricerca scientifica.

Per questo, se senti di soffrire di condizioni simili a quelle riportate in questo articolo, non esitare a chiedere aiuto!

  1. https://www.istat.it/it/archivio/219807
  2. https://www.agi.it/cronaca/news/2020-09-25/quintuplicati-i-casi-di-depressione-per-la-pandemia-da-covid-9760286/
  3. Sanavio, E., Cornoldi, C., Psicologia Clinica. Il Mulino, Bologna, 2017.
  4. Blatt, S. J. (2008).  Polarities  of  experience: Relatedness  and  self- definition  in  personality development,  psychopathology,  and  the  therapeutic  process. Washington, DC: American Psychological  Association.
  5. McWilliams, N., La Diagnosi Psicoanalitica (Seconda Edizione). Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2012.

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